LA
DEMOCRAZIA DIRETTA
Di Mario Adinolfi
L'
età di Pisistrato dal 561 a.C.
Partecipazione
all’Assemblea o Ecclesia
Composizione
del Consiglio dei Cinquecento o Bulè
ROUSSEAU, IL PADRE DEL DIRETTISMO MODERNO
LA CRISI DELLA DEMOCRAZIA RAPPRESENTATIVA
Il 20 marzo 2001, ultimo giorno del primo inverno del millennio, cinque ragazzi si ritrovavano nella sala d’attesa del notaio romano Maria Grazia Russo[1], convinti di compiere un passo gigantesco e allo stesso tempo patetico. Dare vita al primo partito politico dichiaratamente improntato ai principi della democrazia diretta, che avesse intenzione di confrontarsi con la tornata elettorale immediatamente successiva[2]. Piccoli movimenti esplicitamente direttisti erano in realtà già stati fondati, in Italia e nel mondo[3], ma nessuno aveva osato competere alle elezioni. Troppo pochi sia i militanti che i fondi a disposizione, tanto che il solo raccogliere le firme necessarie alla presentazione delle liste scoraggiava tali movimenti da finalità elettorali. Si restava così nell’incredibile contraddizione di predicare il valore della partecipazione democratica per tutti senza poter neanche immaginare di avere i consensi sufficienti a presentare una propria lista nel momento rituale più rilevante per una democrazia: le elezioni.
I cinque presenti in quella sala d’attesa avevano le idee, da questo punto di vista, ben chiare. Presentarsi alle elezioni con meno di due mesi di tempo per organizzare dal nulla un partito politico era, di fatto, una follia. Una follia, ma anche una dimostrazione di convinzione e di forza. E così, quando finalmente la dolce signora notaio si materializzò, i cinque ragazzi (tre giornalisti, un ingegnere, uno studente) furono ben lieti di comunicarle la decisione di inserire nello statuto del movimento il simbolo con cui si sarebbero presentati alle elezioni del maggio successivo: il simbolo internettiano della Chiocciola blu in campo arancione. Era nata Democrazia Diretta, il movimento della Chiocciola. Il primo partito direttista pronto a scontrarsi con il muro delle urne.
L’organizzazione della campagna elettorale fu ovviamente frenetica, eppure in pochi giorni la Chiocciola poté contare su oltre 400 candidature per il sindaco, la lista comunale, i presidenti municipali e le 19 liste circoscrizionali del Comune di Roma. Furono raccolte rapidamente le 1.500 firme necessarie per la presentazione delle candidature, grazie al sostegno di un mensile sufficientemente diffuso tra i giovani della Capitale[4] e all’utilizzo di un sito (www.democraziadiretta.it) dove in molti si autocandidavano e venivano poi “arruolati” durante le riunioni quotidiane nel quartier generale del partito a Roma[5]. La carenza di fondi caratterizzò tutta la campagna elettorale, che costò complessivamente meno di 75 milioni delle vecchie lire, circa 37.000 euro. Funzionava, invece, l’interazione con il sito che raccolse in poche settimane più di 11.000 contatti. L’età media dei candidati non superava i 25 anni (anche se Democrazia Diretta si concesse il vezzo di candidare, oltre a un ragazzo che aveva appena compiuto 18 anni, anche una nonna 93enne). Il programma politico direttista fu sinteticamente tradotto in queste parole:
Noi siamo nati per riscrivere le regole della politica. Questa è la
nostra enorme ambizione.
Partiamo da Roma perché vogliamo farla diventare la città modello della città
futura. I punti del nostro programma sono semplici e fattibili:
·
Partecipare
tutti alle decisioni politiche.
Il cuore del nostro programma è qui: costruire una cittadinanza attiva,
informata e quindi depositaria del potere ultimo sulle decisioni che riguardano
la città.
Internet e le nuove tecnologie (Umts, tv interattiva ecc.) possono essere utilizzate
per ridemocratizzare la politica, affidando a ciascuno il potere di
intervenire, di proporre, di decidere. Vogliamo inserire nello Statuto comunale
l’istituto del referendum propositivo, con cui i romani potranno proporre
direttive per l’amministrazione della città.
Si tratta di una novità rivoluzionaria per l’Italia (dove esiste solo l’abusato
istituto del referendum abrogativo) che però già è una realtà in Svizzera e 23
Stati degli Usa. Con la Rete tutti i meccanismi sarebbero semplificati e
l’auto-governo della città potrebbe gradatamente diventare realtà. Questa è la
democrazia diretta che immaginiamo. Roma può esserne il laboratorio.
· La Rete in tutte le case. Per raggiungere il nostro obiettivo dobbiamo compiere un lavoro strutturale, utilizzando risorse per portare un accesso a Internet in tutte le case di Roma, rendendola una città telematica che sia un modello per il mondo. Abbiamo già contattato le più grandi aziende a livello internazionale per discutere con loro la fattibilità del nostro progetto. Abbiamo scoperto, oltre ad un inaspettato entusiasmo, anche una generosa disponibilità ad impegnarsi finanziariamente nel ridisegno di Roma futura.
·
Alfabetizzazione
telematica. Portare un
terminale web in ogni casa non basta. Bisogna insegnare a usarlo. Noi siamo
convinti che il diritto all’accesso sia parte del diritto fondamentale ad
essere istruito.
Come ai primi del Novecento lo Stato si impegnò a insegnare a leggere e
scrivere ad un Paese analfabeta, così oggi si rende necessaria una campagna di
alfabetizzazione telematica che renda tutti capaci di utilizzare la Rete. Così
nascerà la Nuova Democrazia.
Diretta.
· Decongestionamento della città. Roma connessa in Rete vuol dire meno traffico, meno inquinamento, meno file, meno tempo sprecato per svolgere commissioni futili. Telelavoro (vedi più avanti) vuol dire meno spostamenti. Non serve ingolfare le strade di nuovi veicoli. Serve un’idea di futuro che la classe dirigente di questa città non ha. Noi sì. E vogliamo confrontarla con la tua.
·
Lavoro e
telelavoro. Una città
informatizzata, cittadini consapevoli e attivi, consentono di formare anche
un’idea nuova di lavoro. I posti nel web già oggi disponibili e non occupati a
causa di mancanza di persone sufficientemente specializzate sono 450.000.
L’articolo 114 della Costituzione, riscritto in occasione della riforma
“federale”, rinvia ad una “legge per Roma” che dovrebbe essere varata nella
prossima legislatura. Dobbiamo utilizzare questa occasione per fare di questa
città l’avanguardia del Nuovo Lavoro, incentivando con fondi appositi la
formazione e il telelavoro, che riducendo gli spostamenti tornerebbe a far
respirare la città.
· Favorire le solidarietà. L’idea di Rete è tutt’altro che l’idea di tanti singoli individui staccati l’uno dall’altro. La Rete è l’idea di tante persone che comunicano. E che trovano momenti di solidarietà. Noi crediamo che la “legge per Roma” debba prevedere particolari forme di incentivo per le realtà associative, in particolare per quelle composte da giovani e da attivisti del volontariato. Ogni aggregazione di energie positive, e noi pensiamo anche a quelle sportive e culturali, deve avere il modo di esprimere al meglio le proprie potenzialità.
·
Roma città
aperta. Noi non crediamo ad
una città chiusa nel proprio guscio di benessere. Noi vogliamo lavorare ad una
città aperta agli stimoli che provengono anche da cittadini di nazionalità
diversa dalla nostra. Vogliamo combattere la paura dell’Altro ma, certamente,
pretendiamo rispetto per le leggi, le regole e persino le tradizioni della
nostra città.
Puntiamo però ad una Roma costruita davvero come una Rete, dove ciascuno si
senta il più possibile a casa propria e possa sviluppare il carico di
positività che porta con sé.
Un programma scritto con parole semplici e persino ingenue, caratterizzate dalla necessità di parlare a tutta la cittadinanza di un progetto politico evidentemente troppo in avanti sui tempi. Il risultato elettorale fu deludente: qualche migliaio di voti raccolti dalle liste[6], nessun eletto. Comunque, anche quei pochi voti raccolti fecero gola ai candidati sindaci approdati al ballottaggio. Se li contesero a suon di promesse e di impegni solenni. Ovviamente mai mantenuti.
Questo libro sulla democrazia diretta si apre così: con il racconto di un apparente fallimento. Ma quello che ai più è sembrato un ballon d’essai, per altri è stato solo un primo passo. Come ogni primo passo, dunque, è stato pieno di incertezze e si è concluso con una caduta. Ma quel primo passo è stato compiuto con l’animo di chi sa di inoltrarsi in un territorio inesplorato, se ne assume i rischi ma è pronto anche a proseguire perché sa che c’è qualcosa in più da scoprire. C’è una strada che porta nel cuore della crisi della democrazia e della politica, per fornire qualche risposta e offrire una possibile soluzione. E una possibile rivoluzione, che porterà il nome di Democrazia Diretta.
Sei mesi dopo il fallimento elettorale della Chiocciola, quattro aerei dirottati da militanti dell’estremismo islamico provocavano migliaia di morti in territorio americano[7]. E’ ovvio che nessuna connessione apparente può essere stabilita tra i due avvenimenti. Questo libro, questo manifesto direttista, punta a dimostrare che invece esiste una connessione tra l’impoverimento della democrazia e la disperazione dei kamikaze, dei senza-diritti e degli inconsapevoli, che sempre più caratterizzeranno la nostra era. Non pensiamo solo ai fondamentalisti islamici: pensiamo ai miliardi di persone prive di vera libertà, di capacità di incidere sulle decisioni che li riguardano. In sostanza pensiamo ai miliardi di persone prive di reali diritti democratici, compresi i cittadini dell’Occidente cristiano, che stanno consumando due secoli e mezzo di storia della moderna democrazia viaggiando rapidamente verso la consegna di deleghe in bianco a leader che somigliano e si comportano sempre più come i sovrani dell’assolutismo. Negli Stati Uniti d’America siamo quasi alla monarchia ereditaria[8]. In Europa il caso italiano evidenzia come la concentrazione di poteri nelle mani di un sol uomo sia non solo possibile, ma anche naturale, in un sistema distorto e degradato di cosiddetta democrazia rappresentativa.
Scriviamo questo libro per rendere prima plausibile e poi possibile l’avvento della democrazia diretta. Per dire che, dopo tanto tempo e grazie a Internet, un’altra rivoluzione è possibile. La storia che ha preso il via in quell’ultimo giorno d’inverno dell’inizio del millennio ci porterà al compimento del percorso intrapreso dalla parola democrazia oltre 2.500 anni fa in una città greca chiamata Atene.
Studiosi e dotti, che ovviamente ignoreranno o irrideranno
questo lavoro, fanno fatica ad indicare una data in cui far partire la storia
della democrazia. C’è, certamente, la storia della parola “democrazia”: come
molti sanno il vocabolo democrazia proviene dal greco
demokratia, composto da demos e da kratia. Demos aveva il valore di
popolo, in opposizione al re e alla nobiltà, ovvero - nelle antiche città-stato
come Atene - i cittadini liberi che formavano l’assemblea del popolo. Kratia,
da kratos (collegata alla base krat da cui nasce il nostro grazia) indicava la
forza, la potenza, e, nell’ambito della politica, la signoria, il potere. Il concetto e la parola democrazia
ci giungono dunque dall’antica Grecia: già Erodoto, il padre della storia, nel
V secolo avanti Cristo utilizzava la parola democrazia nel senso di governo
popolare. E alla storia greca dobbiamo rifarci per scrivere una brevissima
descrizione dei colori che ebbe l’alba della democrazia.
Alla base della società greca
primitiva intorno all'800 a.C. si collocavano le famiglie riunite in clan e in
tribù. Durante i sec. IX e X a.C. con l’espansione commerciale e coloniale un
gran numero di Greci si erano resi indipendenti dai legami terrieri arcaici,
segnando l’inizio del declino della classe aristocratica.
Nel 630 a.C. ad Atene venne suscitato un primo tentativo di tirannide da parte
di Cilone che sfruttò una condizione di malcontento popolare.
In un passato mitico il primo sincretismo politico, di natura vagamente
democratica, fu considerato attuato da Teseo. Costui, sette secoli prima di
Clistene, si configurò come un basilèus a cui venne attribuita, in parte
dalla tradizione, il ruolo di creatore di una prima democrazia, per aver ceduto
almeno una parte dei poteri al démos. Il primo vero passo verso la
democrazia può essere considerato l’opera attuata da Dracone (VII sec.a.C.) che
mise per iscritto le leggi di una tradizione orale, per volere degli
aristocratici. Quando però l’Attica fu scossa da una crisi agraria che causò
disordini civili, venne nominato per la città di Atene un aisymnetes
affinché regolasse la situazione politica e sociale.
Essendo stato nominato Solone (ca.594/3 o 592/1 a.C.) per questa carica,
dunque, si avviò l'arché democratico, ovvero l'inizio evolutivo di
questa forma di governo.
Dall’intermezzo costituito dalla
tirannide di Pisistrato(561 a.C.) che donò splendore artistico alla città di
Atene, si passò alla riforma di Clistene (508 a.C.) che rappresenta una forma
più popolare (demotikoteria) rispetto a quella di Solone: proprio la
riforma di Clistene del 508 a. C. è da noi direttisti considerata l’atto di
nascita della democrazia nel mondo occidentale, anche se molta strada sarebbe
ancora stata fatta ad Atene. Arrivò infatti successivamente il momento della
democrazia radicale, contrassegnato dall'abbattimento dell'areopagocrazia,
periodo centrale e di equilibrio politico nella concezione aristotelica.
L'avvento della democrazia radicale (462/1 a.C.) fu segnato dalle figure di
Efialte (fautore della riforma del 462) e Pericle.
Circa mezzo secolo più tardi (nel 411 a.C.) si arrivò al secondo grande trauma
della democrazia, di segno opposto al precedente: il governo dei Quattrocento,
favorito dai sostenitori della pátrios politeía, una posizione moderata
che proponeva l'accostamento Clistene/Solone, tipico di una concezione politica
che voleva salvare i tratti più moderati e conservatori della costituzione
democratica. In forme assai più aspre si presentò il colpo di Stato dei Trenta
tiranni, che da un lato ripeté, dall'altro aggravò, in senso negativo,
l'esperienza dei Quattrocento. Ma vediamo più nel dettaglio, anche se molto
rapidamente, i tratti caratteristici delle riforme finora elencate.
Per prima cosa Solone nel 594 a.C. procedette alla classificazione della popolazione in base al censo in 5 categorie dando così un ordine ed un senso anche alla cavalleria e alla fanteria che già esistevano, ma senza una precisa collocazione in ambito sociale. Basandosi sul censo Solone diede a chiunque la facoltà di migliorare il proprio livello di vita e fornì l'autocoscienza necessaria per sfruttarla. Solone inoltre stipulò delle norme che regolavano l'accesso alle cariche pubbliche:
Per quanto riguarda il demos Solone sciolse i debiti e migliorò le condizioni di milioni di hektemoroi che diventarono :
Anche se l'attività
politica-sociale era ancora riservata agli aristocratici e la coscienza
politica giunse tardi alle fascie più basse della popolazione l' assemblea
assunse un carattere proprio facendosi scudo di una nuova responsabilità
richiesta ad ogni singolo membro nella votazione per alzata di mano; il ruolo
positivo del popolo rispetto alla vita politica si accentuò nel momento in cui
Solone creò un tribunale non aeropagita.
Fu un costituzionalista e cercò con le sue opere di trasmettere quest'ordine di
idee anche agli Ateniesi; voleva che ciascuno agisse in conformità alla legge e
che per gli Ateniesi la costituzione istituita da lui fosse il codice:
infatti è il magistrato che deve essere servo della legge, non il padrone e il
popolo doveva controllare il suo operato.
Pisistrato apparteneva al partito delle Colline cioè la parte radicale dei tre partiti ateniesi (esistevano anche quello della Costa cioè i moderati e quello della Pianura cioè dei conservatori). La maggioranza dei suoi seguaci era composta da thetes o contadini poveri riscossi dai fallimenti economici della riforma di Solone ed egli contava molto sul fatto che tra gli stessi soloniani erano presenti dissapori.
All'epoca di Pisistrato i cittadini ateniesi non fecero nulla per bloccare la loro coscienza politica, ma al contrario si sentirono partecipi e lo stesso sviluppo della città presentò delle problematiche non evidenziate o non considerate da Solone. L'organizzazione statale non fu di fatto ritoccata, anzi la centralizzazione di governo favorì la crescita di importanza delle istituzioni e fornì al demos un' ulteriore consapevolezza di sè nonostante gli affari rimanessero nelle mani degli aristocratici;Pisistrato contro il fenomeno di controllo della fratria aveva isituito dei giudici vaganti e agì in modo da creare nel popolo l'interesse nazionale piuttosto che quello direttamente aristocratico.
L'idea di appartenenza ad un popolo fu ulteriormente rafforzata dalla coniazione di monete i cui beneficiari furono le dee Atena e Demetra o il dio Dioniso e dalla loro identità nazionale e dall' idea di cittadinanza.
Clistene proveniva dal partito aristocratico creatosi dopo l' espulsione di Ippia da Atene ed era di stampo democratico e dalla testimonianza di Erodoto ("...aggiunse il demos alla sua fazione....") sappiamo che si guadagnò l' appoggio del popolo.
Clistene è ricordato per il nuovo
sistema tribale e per l'ostracismo, oltre che come fondatore della democrazia.
L'unità amministrativa divenne il deme secondo cui si divise l'Attica e i
settanta demes vennero poi combinati in trenta blocchi di territori o trittyes
che furono assegnati per sorteggio alle nuove dieci tribù. Nel VI sec a.C. il
consiglio fu composto da 500 membri ( 50 per ciascuna tribù) e l'assemblea non
era più di dominio aristocratico, ma ogni anno veniva scelto in ogni tribù il
proprio sindaco o demarchos, un consiglio e i funzionari. Alla base del
deme era presente il concetto democratico proprio nel fatto che tutti i suoi
membri fossero considerati uguali sotto tutti i punti di vista e in particolare
perchè tutti si potevano riconoscere come membri di uno stato.
L' importanza di una nuova struttura tribale e di nuovi scopi politici potrebbe avere due ipotesi:
Riguardo a ciò rimane il dubbio che Clistene abbia diviso i trittyes con fiera intenzione di spezzare la forza aristocratica ed eliminare le ribellioni in quanto egli favorì notevolmente il popolo tentando di distruggere i vincoli di fedeltà esistenti cioè le fratrie.
Ma nonostante questo la riforma di Clistene viene etichettata dagli storici con le parole isonomia e isergoria, ma non demokratia! In realtà la sua è stata davvero una prima pietra, su cui poi si sono poggiate le costruzioni successive.
La riforma costituzionale di Clistene aprì le porte al demos che progressivamente prese coscienza di sé e in seguito alla vittoria sui Persiani a Maratona nel 490 e a Salamina nel 480a.C.si instaurarono in Atene due fazioni politiche : i moderati di Aristide e i progressisti di Temistocle (vincitore di Salamina) e quest' ultimo salì al potere, ma dopo l'ostracismo subito, fu sostituito da Pericle.
Nel 462 a.C. il partito conservatore, filospartano ed antipersiano, guidato da Cimone, venne sostituito nel governo di Atene da quello democratico e antispartano che faceva capo ad Efialte. Costui provvide a ridurre immediatamente le competenze dell’Areopago ai soli reati di sangue così da ridurre il potere degli aristocratici che rispetto al 508a.C., venivano ormai ritenuti servi del demos, il quale era ormai profondamente convinto della sua forza e della sua importanza.Da questa consapevolezza nacque una nuova definizione alla politica: oltre a isegoria e a isonomia si parla finalmente di demokratia! Efialte venne assassinato, e la guida del partito passò in mano a Pericle.
Pericle proseguì nel piano di
riforme democratiche ottenendo, per prima cosa, che i giudici popolari fossero
indennizzati per le loro funzioni: questo segnò una svolta nella vita politica,
ampliando la sfera dei cittadini coinvolta direttamente nella vita politica.
Momento fondamentale del suo governo fu il trasferimento sull'Acropoli del
tesoro della Lega, gestito direttamente dall’assemblea ateniese e sfruttato poi
per l’abbellimento della città. Il progetto, apertamente demagogico, implicò
l’impiego nella flotta, come rematori, di grandi masse di cittadini fino ad
allora disoccupate e garantì a tutti gli inabili e ai disagiati un sussidio in
denaro.
Il positivo periodo dei quasi cinquant’anni che intercorsero fra Salamina e il 432 a.C. (indicato con il nome di Pentacontaetia), durante i quali la civiltà attica conobbe il massimo splendore, si concluse bruscamente e per sempre al momento dello scoppio del conflitto peloponnesiaco. L’urto con Sparta fu voluto da Pericle. La guerra, che venne generata da un netto contrasto politico e si fondò su una complessa rete di alleanze, determinò l’insorgere di sospetti, diffidenze e discordie fra i cittadini. La politica ateniese iniziò quindi un lungo periodo di instabilità associato a un processo di progressivo deterioramento soprattutto morale, che vide sempre più frequentemente sostituiti agli interessi della collettività quelli di un partito politico o, peggio, quelli personali; in ciò il movimento culturale della sofistica ebbe una responsabilità notevole. La democrazia ateniese si avvitò, così, in una crisi che, alla morte di Pericle nel 429 a.C., aprì la fine la porta, dopo la guerra del Peloponneso, all’abolizione della costituzione democratica e alla dittatura dei cosiddetti Trenta Tiranni nel 404 a.C.. Ma il regime così instaurato era solo una dispotica oligarchia, e non di rado l’opposizione ad essa divenne facile scusa per perpetrare abusi, per cui dopo pochi mesi un ennesimo intervento armato dei democratici, guidati da Trasibulo, riportò ancora una volta in Atene una costituzione di tipo pericleo (403 a.C.). Ma vediamo ora come funzionava, nel concreto, la democrazia ateniese.
La teoria costituzionale della democrazia ateniese è molto semplice: il
popolo è sovrano (kurios). Sieda nell’Assemblea o nei tribunali, è il
sovrano assoluto di tutto ciò che concerne la città e i cittadini sono liberi e
uguali sotto l’egida della legge.
Per far parte dell’Ecclesia erano necessari due requisiti:
1.essere cittadino ateniese: una legge del 450 a. C., voluta da Pericle, stabiliva che divenisse cittadino solo chi fosse nato da padre e madre ateniesi (mentre prima, e nella maggior parte delle altre poleis, bastava che fosse cittadino il padre);
2.essere maggiorenne. La maggiore età si acquisiva a diciotto anni, per via dell’iscrizione sui registri del demo (i demi erano le unità territoriali più piccole in cui era stata divisa l’Attica dalla riforma di Clistene –508 a. C.-, dotate di autonomia dal punto di vista amministrativo. Questa frammentazione del territorio statale di Atene era dovuta alla sua estensione -più di 2400 kmq, all’incirca come l’attuale Granducato di Lussemburgo-). Non sempre questi registri erano sicuri: infatti molti meteci (che erano gli stranieri che si stabilivano ad Atene ma erano privi dei diritti politici) riuscivano a farsi iscrivere e quindi a partecipare ai lavori dell’Assemblea che si tenevano sulla collina della Pnice. Questa, nonostante le sue modeste dimensioni, bastava largamente poiché molti Ateniesi spesso preferivano non assentarsi da casa, non rinunciando così a delle giornate lavorative.
Riunioni e funzionamento dell’Assemblea
In origine, l’Ecclesia si riuniva una volta per pritania, ovvero dieci volte all’anno; ma, col passare del tempo, vennero aggiunte tre sedute supplementari per pritania. Ogni assemblea aveva il proprio ordine del giorno, tuttavia, nel caso di una sventura pubblica o di un evento imprevisto che esigessero un provvedimento urgente, potevano essere indette assemblee straordinarie. La seduta incominciava di buon mattino quando un segnale era dato da una bandiera sventolante sulla Pnice. Così la polizia sbarrava le strade che conducevano all’Agorà e spingeva i cittadini verso la collinetta della Pnice, cui si accedeva per una ripida scalinata e che poteva raccogliere fino a 6000 persone. Presidente dell’Assemblea era l’epistate dei pritani (presidente anche della Bulè), designato dall’estrazione a sorte ogni giorno, che, dopo una cerimonia religiosa in onore di Zeus, dava inizio alla seduta. Si incominciava con la discussione delle proposte di legge della Bulè , i probuleumata: ogni cittadino poteva prendere la parola e proporne emendamenti, salendo su una tribuna e mettendosi sul capo una corona di mirto, simbolo d’inviolabilità. Dopo la discussione, i pritani indicevano le votazioni per alzata di mano (epicheirotonìa) e il presidente, proclamatone il risultato, poteva togliere la seduta.
All’Ecclesia competevano svariate funzioni:
In materia di politica estera l’Assemblea , sotto la direzione della Bulè, decideva della pace, della guerra e delle alleanze e nominava gli ambasciatori. Per quanto riguarda invece il potere legislativo, l’Ecclesia non si arrogava il diritto di abolire formalmente le leggi e votarne di nuove, ma trovava le forme necessarie per legiferare attraverso decreti. Il popolo era anche supremo giudice, ma delegava il potere giudiziario ai tribunali, intervenendo direttamente solo nelle questioni più delicate e importanti.
Riunioni straordinarie dell’Assemblea
Nel V secolo, in circostanze di particolare importanza, si riuniva anche l’Assemblea plenaria, convocata nell’agorà, divisa per tribù e considerata come rappresentante l’intera città. Il minimo di unanimità era un voto espresso da seimila suffragi. L’Assemblea plenaria era convocata per designare chi dovesse essere bandito per ostracismo, per conferire l’adeia, cioè l’impunità o la grazia, o nel caso di collazione del diritto di cittadinanza. Il bando per ostracismo venne decretato per la prima volta nel 487 e, con gli anni più frequentemente, nelle circostanze gravi e nelle guerre perché non vi fossero continui dissensi in merito alla difesa nazionale e nella politica interna, e servì così alle fazioni opposte a decapitarsi a vicenda. L’operazione dell’ostracophorìa si effettuava in seduta plenaria durante la sesta pritania: il voto veniva espresso per mezzo di pezzi di coccio, ostraca, e il condannato doveva lasciare l’Attica entro dieci giorni e per dieci anni, salvo eventuali amnistie.
La Bulè, organizzata dalla riforma di Clistene (508 a. C.), era un organo composto da cinquecento membri detti buleuti, sorteggiati, come afferma Tucidide, "per mezzo della fava" tra i demoti aventi più di trent’anni che si presentassero come candidati. Questi solitamente non erano in grande numero dal momento che, nonostante venissero retribuiti, dovevano comunque sacrificare un’intera annata agli affari pubblici. Prima di entrare in carica i buleuti dovevano prestare giuramento e cingevano la corona di mirto, segno della loro inviolabilità, mentre, al termine dell’annata, il Consiglio intero doveva rendere conto al popolo del proprio operato. La Bulè era convocata dai pritani e si riuniva nel Buleuterio, situato a sud dell'agorà. Ma come l’Ecclesia, non poteva sedere in permanenza per un’intera annata; per il disbrigo degli affari ordinari aveva bisogno di una giunta direttiva controllata a turno da una delle dieci tribù per una decima parte dell’anno : essa era costituita da cinquanta pritani (ovvero 1/10 dei buleuti) e presieduta da un epistate (sorteggiato ogni giorno tra i pritani) che teneva per ventiquattro ore le chiavi dei templi dove si trovavano i tesori, gli archivi e i sigilli dello Stato. Questa giunta aveva il compito di mettersi in relazione con l’Ecclesia , con i magistrati, gli ambasciatori e gli araldi stranieri; convocava in caso di urgenza il Consiglio, l’Assemblea, gli strateghi e aveva a disposizione le forze di polizia. Nell’esercitare le sue molteplici funzioni la Bulè nominava poi diverse commissioni speciali: per controllare le entrate all’Assemblea, per sorvegliare l’amministrazione marittima o per la consacrazione e le celebrazioni dei misteri (commissioni di ieropi).
Poteri della Bulè
A un tempo organo preparatorio-esecutivo e magistratura suprema, aveva tre mezzi per esercitare i suoi diversi poteri:
La Bulè aveva attribuzioni importanti anche in campo finanziario, poiché sorvegliava l’impiego del denaro pubblico e si occupava degli appalti delle imposte, delle concessioni minerarie, delle locazioni dei terreni sacri, della costruzione e conservazione delle opere pubbliche (come si deduce dai conti sui lavori dell’Acropoli nell’età di Pericle). Infine, fra le sue molte funzioni giudiziarie, si occupava della procedura rapida per punire i reati contro la sicurezza dello Stato: l’eisangelìa. Un tempo chi giudicava i reati per eisanghelìa contro la costituzione era l’Areopago: una legge di Solone gli riconosceva questo diritto. Ma, dopo la riforma di Efialte (462 a. C.), la competenza in materia di questi crimini passò al Consiglio, che divenne così un organo centrale della democrazia ateniese.
Come ogni classificazione, la scansione della storia per grandi fasi rischia
di risultare eccessivamente schematica e riduttiva generando il pensiero che
l’incessante fluire degli anni sia invece un costante contrasto tra secoli
"l’un contro l’altro armati". Detto questo è però vero che alcune
fratture si verificano e che spesso idee e progetti obliati per secoli,
riemergono contemporaneamente nella riflessione filosofica e nella pratica politica.
L’ideale democratico scompare o almeno si attenua dopo l’esperienza ateniese
disperdendosi nell’incessante nascere e morire di imperi, come quello di
Alessandro, e di regni. In seguito l’egemonia di Roma, sia nella sua esperienza
repubblicana che nel successivo principato, pur influenzata dalla cultura greca
(come testimoniano i celebri versi di Orazio "Graecia capta ferum
vincitorem cepit"), resta sostanzialmente estranea ad essa nella
riflessione e nella prassi politica. Polibio, che pure loda la costituzione romana,
la definisce come mista, ovvero tale da costituire una sintesi, nelle sue
istituzioni, di democrazia, aristocrazia e monarchia; lo stesso Cicerone, nel
delineare il suo ideale di stato, parla della necessità di un moderatore e
mediatore, una sorta di garante super partes della stabilità e della
tranquillità della vita civile. Del resto anche gli storici dell’età imperiale,
e Tacito in particolare, nel far riferimento alla repubblica come ideale
polemico rispetto ala decadenza presente, non ne prospettano il ritorno né,
tantomeno, esaltano di essa gli aspetti democratici, ma, piuttosto, il clima di
libertà politico-culturale da cui era caratterizzata.
Il Medioevo si muove nella dialettica tra Papato e impero, troppo preoccupato, forse, di trovare un ordine e di conservare intatte le fragili strutture economico-sociali create nei secoli di particolarismo e assenza del potere centrale, per poter pensare alla riflessione o rischiare nuovamente una dispersione anarchica del potere.
L’ideale democratico rinasce dunque nell’età moderna nei "sogni" dei maggiori pensatori. E’ praticamente impossibile un percorso che tenga conto degli innumerevoli contributi a tale dibattito che riguarda non solo gli ideali democratici, ma anche la loro compatibilità con altri ideali, soprattutto liberali, con i sistemi esistenti, con le diverse concezioni dello Stato. Nel Seicento Baruch Spinoza scrive che la democrazia è la forma di organizzazione sociale naturale, il governo tipo, perché è il governo del popolo esercitato dal popolo e quindi il regime politico più "ragionevole" e più "libero". Se infatti società, stato e governo formano una unità inscindibile nel pensiero di Spinoza, la democrazia è il regime che consente il maggior rispetto per la libertà naturale degli individui perché in essa "nessun individuo trasferisce il suo diritto naturale a un altro individuo... Egli lo trasferisce alla totalità della società di cui fa parte; gli individui rimangono così tutti uguali, come poco prima nello stato di natura". A Spinoza dobbiamo, dopo due millenni di buio, il riaccendersi della fiammella della democrazia. Ma il pensatore a cui noi direttisti dobbiamo l’impianto filosofico fondamentale della nostra azione è Jean Jacques Rousseau.
Prima di prendere in considerazione la nascita di quella che Rousseau chiama
la società giusta, la cui genesi è descritta nel celebre Contratto
sociale, è forse opportuno prendere in considerazione la situazione
originaria dell'uomo; solo a partire dall'analisi dello stato di natura così
come è inteso dal filosofo ginevrino sarà possibile rilevare le differenze
esistenti non solo tra questo stadio della vicenda umana, ma anche tra il
pensiero dei contemporanei di Rousseau rispetto al suo.
Innanzitutto, Rousseau critica esplicitamente l'idea di stato di natura propugnata dai giusnaturalisti: come emerge già nella prefazione al Discorso sull'origine e i fondamenti della disuguaglianza fra gli uomini (1753), non è corretto cercare di conoscere lo stato originario dell'uomo proiettandovi per analogia i vizi, le passioni e gli impulsi all'azione che sono invece propri dell'essere sociale dell'uomo stesso e che quindi non si addicono a definire una situazione in cui l'uomo vive invece isolato e per questo indipendente dai suoi simili. Ciò ha portato a fraintendere anche il motore della genesi dello stato sociale, la quale sembra postulare, da parte degli individui, dei "poteri intellettuali" assolutamente incompatibili con la primitività della situazione in cui tale genesi si collocherebbe.
L'uomo naturale di Rousseau, infatti, vivendo a stretto contatto con la
natura stessa e in pressochè totale solitudine, non ha la necessità di
programmare la propria esistenza oltre l'immediato presente: non sarebbe in
grado, dunque, di compiere quelle supposizioni e quei ragionamenti astratti che
stanno alla base del pactum istitutivo dello stato così come esso è
prospettato in Hobbes o Locke. Anche il conflitto con i propri simili (il bellum
omnium contra omnes hobbesiano) è un problema estraneo all'uomo naturale di
Rousseau, sia per l'esistenza atomizzata che questi conduce, sia perché non vi
sarebbero passioni di predominio a guidare la sua condotta: la spinte
fondamentali che il ginevrino crede di scorgere alla base dell'azione degli
individui nello stato di natura sono essenzialmente due: l'amore di sé, che
solo in un secondo tempo si trasforma in amor proprio, ossia la tendenza
all'autoconservazione, e la pietà, ossia la capacità di rifiutare moralmente la
sofferenza e la morte di ogni essere sensibile e specialmente di altri esseri
umani.
Se dunque da un siffatto stato di natura è improbabile che scaturisca una
qualsiasi autorità statuale, è necessario che l'uomo progredisca per avere
delle ragioni valide per associarsi coi propri simili e costituirsi in Stato.
A differenza degli animali, destinati a non evolversi in quanto a capacità intellettuali e tecnologiche, l'uomo invece è dotato, secondo Rousseau, sia dalla volontà e dalla capacità di scelta, sia della cosiddetta perfectibilité (facoltà di perfezionare se stesso e la propria esistenza); è significativo come il filosofo ginevrino dissenta a questo proposito dalla tesi, largamente diffusa in ambito giusnaturalistico, secondo la quale la cifra distintiva dell'uomo rispetto all'animale risiede nella naturale tendenza alla socialità: Rousseau contesta il semplicismo di questa tesi, così come implicitamente nega, in questo modo, la possibilità di realizzare l'ideale del cosmopolitismo illuminista, il quale implicherebbe una naturale socievolezza da parte dell'uomo.
Quali sono allora le conseguenze della volontà e della perfettibilità
dell'uomo? Sono queste due capacità che spingono l'individuo a ricercare e a
perseguire sempre maggior benessere attraverso l'attività economica, il lavoro,
il progresso in generale. Se da un lato ciò rappresenta un perfezionamento
della vita umana, nondimeno tale processo deve essere interpretato anche in
negativo: il rovescio della medaglia è rappresentato dalla corruzione delle
relazioni sociali, della morale e dello spirito dell'umanità: la proprietà
privata, in particolare, crea disuguaglianza e quindi rivalità, invidia,
cupidigia e così via. Il conflitto non appartiene dunque alla natura stessa
dell'uomo, ma è un prodotto secondario della sua inevitabile uscita dallo stato
di natura, nella misura in cui la natura stessa non riesca più a supplire ai
bisogni "secondari" dell'uomo in continua progressione.
E' di fronte a questa situazione che appare necessario istituire in patto
costitutivo della società e delle leggi che consentano la coesistenza più o
meno pacifica delle ambizioni individuali.
La necessità impellente di giungere
a una conciliazione tra le diverse parti in conflitto provoca la nascita di una
entità statale, che si costituisce sempre a partire da un patto. Quest'ultimo
non necessariamente dà luogo a una società giusta, in quanto, scaturito dalla
sopraffazione, non sempre rappresenta una soluzione conforme al bene comune.
Viceversa, indipendentemente dalla valutazione morale del patto che si
istituisce, è indubbia la cesura storica che esso rappresenta: è a partire da
esso che l'uomo esce dal suo stato originario per divenire uomo sociale in
tutto e per tutto, dipendente dagli altri e non più dotato di assoluta
indipendenza; l'uomo diventa quindi un essere morale, nella misura in cui
qualsiasi categoria morale implica il vivere in società: Hobbes sbagliava a
considerare gli uomini per natura cattivi, poiché ogni vizio o virtù deve avere
un oggetto su cui dirigersi, cosa che non accade nella solitudine dello stato
di natura.
Il contratto sociale può scaturire dunque da diverse esigenze, a seconda delle
quali la società che costituisce sarà giusta o sostanzialmente iniqua.
Lo stato prospettato nel Contratto
sociale è quello che autenticamente è in grado di restaurare la libertà perduta
con l'uscita dalla solitudine naturale; tale libertà, però, non sarà più quella
assoluta del primitivo, ma quella relativa dell'uomo inserito in un contesto
sociale.
Il patto non risiede dunque nel trasferimento della libertà del singolo a un
sovrano esterno: nella società giusta è l'individuo a alienare i propri diritti
alla società nel suo insieme, di cui egli stesso fa parte. Ciò equivale alla
rinuncia al proprio io particolare a favore di un io comune all'interno del
quale la stessa libertà possa trovare esplicazione: in verità l'uomo aderente
al contratto sociale è libero proprio perchè non sottoposto all'arbitrio
altrui, ma alla volontà generala che egli stesso concorre a formulare e a
esprimere attraverso la legge.
L'obbedienza al corpo sovrano non rappresenta quindi una costrizione, in quanto
l'individuo non fa che obbedire a se stesso, al suo "io comune".
Allo stesso tempo l'uomo diventa un
essere morale, proprio perché entro lo stato sociale ha modo di essere libero e
di non subire più la volontà altrui. Affinchè però tutti non debbano obbedire
ad altri che a se stessi, è necessario che tutti rinuncino completamente alla
propria libertà particolare: l'uguaglianza tra i contraenti che si
costituiscono in corpo sociale è, da questo punto di vista, condizione
necessaria.
Analogamente, l'uguaglianza tra i membri dello Stato è anche uno dei fini dello
Stato stesso: la disuguaglianza è concessa fino a quando nessuno si trovi a
dover dipendere da un altro (privato), poiché in tal caso il sottomesso
perderebbe la propria libertà, la quale è invece il fine immediato del
contratto.
Si può quindi affermare che, sebbene lo stesso Rousseau parta da una posizione che molto deve alla tradizione del contrattualismo moderno, tuttavia il valore che egli assegna al contratto è profondamente diverso; nella misura in cui al contraente non è richiesto di avocare ad altri la propria libertà (pactum subiectionis) ma di obbedire a se stesso riversando il proprio potere individuale sul sovrano di cui egli stesso fa parte.
L'individuo inserito nella società
del Contratto sociale si trova quindi scisso nelle sue componenti principali:
da un lato l'io materiale, privato, destinato a essere comandato e per questo
conteggiato tra i sudditi; dall'altro l'io comune, spirituale, in grado di
vedere l'interesse generale oltre le passioni individuali di cui è invece
portatore l'io materiale.
Per questa sua facoltà di comprendere che cosa sia il bene comune, quegli
uomini spiritualizzati che sono i cittadini fanno parte del sovrano, ossia di
quell'organo deputato a esprimere la volontà generale attraverso leggi valevoli
per tutti i membri dello stato.
Tutti sono contemporaneamente
sudditi e sovrani, da cui si deduce che, per mantenere questa coincidenza, la
sovranità (che ovviamente appartiene al popolo) non può essere né alienata, in
quanto in tal caso qualcuno sarebbe solo suddito, perdendo la propria libertà,
né divisa, perché allora non risponderebbe più alla volontà generale.
Rousseau nega quindi la possibilità di separare i poteri dello stato: se tutto
il potere individuale dei singoli è confluito nel sovrano, e questo non può
essere diviso, allora il governo e la magistratura non possono esistere come
dipartimenti del sovrano, bensì come sue emanazioni.
Esiste inoltre un'ulteriore impedimento alla definizione del governo quale costola del sovrano: poiché il sovrano esprime il proprio essere prodotto dalla confluenza delle volontà private nell'attività legislativa e tale attività mira sempre al generale, mai al particolare, non può far parte del sovrano il governo che, presiedendo all'applicazione delle leggi sui sudditi, si volge al particolare piuttosto che al generale.
Le leggi, nello Stato di Rousseau, sono emesse dal sovrano in conformità con quella che è definita volontà generale.
Si tratta di un concetto piuttosto complesso, che può essere letto sotto una triplice luce:
Rousseau chiama volontà generale in
senso proprio ed eccellente la volontà del sovrano in uno Stato: egli esclude
quindi la possibilità che esista un a volontà generale sovranazionale, che
accomuni l'intero genere umano.
Rousseau in un certo senso, dunque, nega la legittimità o almeno la
praticabilità dell'ideale cosmopolita illuministico, ma non scade in un nazionalismo
vuoto di senso: la sua posizione è anzi assunta per coerenza con le premesse
generali della sua opera: la specie umana non può costituire una società e
quindi avere una volontà generale, in quanto essa è semplicemente una
aggregazione di individui portatori di interessi personali i quali non formano
un corpo sociale definibile come sovrano.
Oltretutto, l'illuminismo cosmopolita postulava, alla base dell'aggregazione
stessa, una naturale socievolezza degli uomini che, si è visto, Rousseau non
scorge nemmeno nel passaggio da stato di natura a stato sociale.
Il problema è ora quello di definire come rintracciare, disciplinare e tradurre in legge la volontà generale.
Vale la pena ripetere che la
volontà generale non è la volontà determinata dalla somma delle singole volontà
degli individui, ma è la volontà del corpo che li comprende. La differenza tra
volontà individuale e generale non è quantitativa ma qualitativa.
Ottimisticamente, Rousseau ritiene possibile identificare tale volontà mediante
la consultazione diretta di tutti i cittadini (la sovranità non può essere né
delegata né alienata), i quali, dal canto loro, saranno dotati di virtù
sufficiente a preferire l'interesse dello Stato al proprio.
La volontà generale emergerà grazie all'elisione delle volontà individuali
contrastanti ed estranee al bene comune.
L'ideale di società di Rousseau è dunque quello di una comunità piccola, i cui cittadini possano riunirsi tutti contemporaneamente nello stesso luogo (non devono vivere sparpagliati su un territorio troppo vasto); l'attività politica dovrebbe poi essere tanto frequente da abituare il popolo alla sua pratica corretta, cioè a scorgere il bene comune al di là di quanto dettato dagli impulsi materiali dell'io individuale.
La concezione della volontà generale di Rousseau vieta poi l'esistenza di partiti politici o gruppi di pressione ed incanalamento del consenso popolare che si accordino a spese dell'unità: gruppi del genere altererebbero il numero delle volontà individuali rendendo difficile la loro reciproca elisione; fortunatamente ciò si verifica solo quando il corpo dello Stato non è più compatto, cosicchè il cittadino si dimostra o apatico, o incapace di tutelare alcunchè oltre al suo privatissimo interesse.
La volontà generale, quindi, non solo è misticamente connotata come assoluta, inalienabile, indivisibile, infallibile e così via: essa si basa sul presupposto etico che sia la virtù civica a muovere il cittadino, e che tale virtù gli sia stata insegnata dalla convivenza sociale stessa.
La volontà generale è una prerogativa del popolo, in quanto esso solo detiene la sovranità. Gli atti del sovrano devono essere solo leggi, aventi cioè oggetto generale: l'applicazione della legge, atto che implica una discesa nel particolare, è compito del governo.
Secondo Rousseau il governo non è
un potere, in quanto la sovranità è indivisibile, ma una emanazione del potere
detenuto dal popolo sovrano; più precisamente esso è il corpo intermedio che
funge da collegamento tra il popolo come sovrano (che promulga le leggi) e il
popolo come suddito (che ubbidisce alle leggi).
Il rapporto tra potere legislativo ed esecutivo è spesso posto in relazione con
quanto Rousseau sostiene a proposito dell'azione dell'uomo in generale:
quest'ultima, infatti, ha sempre due cause: una morale, cioè la volontà, ed una
fisica, ossia la forza materiale (puissance). Il governo, appunto, mette
in pratica con la propria forza la legge, collegando così i cittadini riuniti
del sovrano con i sudditi isolati che eseguono le prescrizioni legislative.
Per questo suo carattere di medium il sovrano non può essere così debole
da non avere autorità sui sudditi presi singolarmente, ma non deve nemmeno
essere così potente da intervenire sul lavoro dei cittadini come corpo riunito nel
sovrano.
La forza del sovrano dipende è inversamente proporzionale alla fatica che deve sostenere per riunire i suoi membri in un corpo; per comprendere questo concetto occorre tener conto del fatto che nella persona del magistrato (membro del governo) convivono tre diverse volontà generalmente in conflitto tra loro:
In un regime correttamente
funzionante, sia la prima che la seconda volontà dovrebbero essere subordinate
alla terza.
Tuttavia, la volontà individuale diminuisce con l'aumento del numero di coloro
che compongono il corpo di cui l'individuo fa parte. Segue che il governo più
forte è quello monarchico, in quanto volontà particolare e di corpo coincidono,
mentre quello più debole è quello democratico, dove, partecipando al governo
tutti i cittadini, il divario tra volontà particolare e di corpo è il massimo;
saranno quindi necessari più sforzi da parte del governo per tenere uniti i
suoi membri.
Rousseau specifica però di non entrare qui nel merito della rettitudine del governo,
ma solo in quello della sua forza: è evidente, infatti, che il governo di tutti
è anche quello in cui volontà popolare e volontà di corpo si avvicinano fino a
sovrapporsi.
Il governo ideale dovrà dunque essere esteso il più possibile, per evitare conflitti
tra la volontà di corpo e quella generale, ma anche il più possibile
concentrato, in modo che le volontà individuali non costringano il governo a un
gran dispendio di energie per tenere uniti i suoi membri.
Rousseau individua dunque tre forme di governo a partire dal numero di coloro che, all'interno dello Stato, detengono il governo. La sovranità resta in tutti i casi, almeno a livello teorico, prerogativa inalienabile del corpo civile nella sua totalità: se distinzione ci deve essere tra le forme politiche, essa non può riguardare l'aspetto del legislativo, ma unicamente quello del governo che, come si è già visto, non è una parte dell'unico potere sovrano, ma un'emanazione di quest'ultimo.
Le tre forme di governo individuate da Rousseau sono la democrazia, l'aristocrazia e la monarchia. I limiti tra una e l'altra sono però piuttosto labili, al punto da poter prospettare soluzioni di tipo misto che accorpino gli elementi migliori di ciascuna.
In secondo luogo Rousseau non si
dichiara apertamente a favore di una forma piuttosto di un'altra: ciascuna
delle tre, infatti, è la migliore se applicata nel contesto sociale e
ambientale più adatto. Ad esempio, la democrazia, che implica la possibilità da
parte dei cittadini di riunirsi con una certa frequenza, necessita di un
territorio non troppo vasto e di un popolamento non rarefatto.
In un governo democratico il
sovrano coincide con il principe, cioè il potere legislativo appartiene al
popolo intero esattamente come quello legislativo.
Lo stesso corpo promulga le leggi e ne permette l'applicazione, dirigendo la
sua attenzione ora all'universale, ora al particolare. Le stesse persone si
trovano coinvolte sia come cittadini dotati di sovranità, sia come magistrati,
sia come sudditi obbligati, come individui singoli, a obbedire alle stesse
leggi di cui presiedono all'esecuzione.
Un vantaggio innegabile di questo
sistema risiede nella necessaria concordia tra intenzioni del legislativo e
applicazione della legge stessa, poiché, evidentemente, nessuno interpreta la
legge meglio di chi l'ha promulgata.
D'altro canto Rousseau mette le mani in avanti: nella democrazia cose che
devono rimanere distinte non lo sono: la volontà legislativa rischia di
corrompersi nella misura in cui le medesime persone si occupino
contemporaneamente di questioni particolari come membri dell'esecutivo. Il
rischio rilevato dal filosofo ginevrino sta nel continuo spostamento
dell'attenzione dall'universale della legge al particolare del governo.
Conseguenza immediata sarebbe l'abuso di potere da parte del governo stesso,
fatto che porterebbe alla rovina stessa dell'istituzione democratica.
Viceversa, se il governo non abusasse del suo potere all'interno della
democrazia, tale governo non avrebbe più ragione d'essere, perché, come
sostiene Rousseau,
un popolo che governasse sempre bene, non avrebbe bisogno di essere
governato.
Altre obiezioni mosse dal filosofo
al regime democratico muovono da ragioni eminentemente pratiche: il legislativo
può riunirsi pochi giorni all'anno per emanare le leggi, mentre l'ordinaria
amministrazione del governo obbligherebbe i cittadini, che nel regime
democratico rousseauiano occupano tutti una magistratura, a restare
perennemente riuniti.
Ciò equivarrebbe a distogliere tutti i cittadini dalle loro occupazioni
private, in primo luogo dall'attività produttiva necessaria alla sopravvivenza
e al benessere dello Stato stesso. La democrazia può esistere dunque solo in
quelle società (come la polis greca) in cui tutte le attività materiali
siano demandate agli schiavi; lo stesso Rousseau ha però dimostrato
l'inammissibilità non solo etica ma anche logica dell'istituto della schiavitù.
D'altro canto, nel caso in cui il governo sia affidato a delle commissioni, la
democrazia si trasformerebbe in oligarchia, in quanto il potere esecutivo
passerebbe nelle mani del più forte e agile di quei gruppi.
Per quanto riguarda più
propriamentele precondizioni necessarie all'istituzione e al mantenimento dello
Stato democratico, oltre alla già menzionata scarsa estensione del territorio,
Rousseau ricorda anche la conoscenza reciproca che deve esistere tra tutti i
cittadini, la semplicità dei costumi e, molto rilevante, l'eguaglianza
materiale (il lusso è ritenuto fattore incompatibile con la democrazia).
Come Montesquieu, Rousseau indica anche la virtù come una condizione
indispensabile per la democrazia, ma proprio per questo è molto scettico circa
l'applicabilità della forma democratica agli Stati umani: piuttosto lapidaria a
questo proposito è la sentenza, contenuta in chiusura del cap. 4 del libro III
del Contratto Sociale:
Se ci fosse un popolo di dei, si governerebbe democraticamente. Un governo tanto perfetto non si addice agli uomini.
Questo avviene proprio perché difficilmente l'uomo riesce a avere quelle virtù che Rousseau indica come necessaria alla democrazia; già nel semplice contesto dello Stato generato dal contratto sociale, indipendentemente dalla forma di governo, l'uomo fatica a mettere tra parentesi il suo io individuale in nome del bene comune: a maggior ragione faticherà a farlo laddove ha la possibilità di partecipare direttamente anche all'attività dell'esecutivo.
La democrazia richiede dunque che le qualità umane che Rousseau giudica alla base della creazione dello Stato siano presenti nella cittadinanza elevate all'ennesima potenza.
La democrazia è nata da una concezione individualistica secondo cui la
società è un prodotto artificiale della volontà degli individui; alla
formazione di tale concezione hanno concorso tre eventi: il contrattualismo del
Sei-Settecento, la nascita dell’economia politica, ovvero di un’analisi della
società e dei rapporti sociali il cui soggetto è il singolo individuo, la
filosofia utilitaristica da Bentham a Mill. Partendo dall’ipotesi
dell’individuo sovrano che, accordandosi con altri individui ugualmente
sovrani, crea la società politica, la dottrina democratica aveva immaginato una
società senza corpi intermedi, caratteristici della società corporativa delle
città medievali. Quello che è avvenuto negli stati democratici è perfettamente
l’opposto: soggetti politicamente rilevanti sono diventati sempre più i gruppi,
grandi organizzazioni, associazioni, sindacati, partiti, e sempre meno gli
individui. I gruppi, non gli individui sono i protagonisti della vita politica,
con la loro autonomia rispetto al governo centrale. Il modello ideale era
insomma quello di una società centripeta, la realtà è quella di una società
centrifuga che non ha un solo centro di potere, la volontà generale di
Rousseau, ma ne ha molti e merita il nome di società policentrica. Il modello
dello stato fondato sulla sovranità popolare che era stato ideato a immagine e
somiglianza della sovranità del principe, era quello delle monadi di Leibniz,
mentre la società reale è pluralistica.
Altra promessa non mantenuta dalla democrazia rappresentativa è la sconfitta del potere oligarchico. Il principio ispiratore del pensiero democratico è sempre stato la libertà intesa come autonomia, cioè capacità di dare leggi a se stessi, secondo la definizione di Rousseau, che dovrebbe avere come conseguenza la perfetta identificazione tra chi pone e chi riceve una regola di condotta, e quindi l’eliminazione della tradizionale distinzione tra governanti e governati. Invece la democrazia rappresentativa oggi è sempre più legata allo schema di élites dominanti e ristrette che governano le moltitudini. Naturalmente la presenza di élites al potere non cancella la differenza tra regimi democratici e autocratici e Schumpeter sostenne che la caratteristica di un sistema democratico non è l’assenza di élites, ma la presenza di più élites in concorrenza tra loro per ottenere il voto popolare. Il problema resta quello della formazione delle élites, oggi sempre più inaccessibili e basate su un modello sociale sostanzialmente neo-feudale: nelle élites si entra per nascita o per censo e la mobilità sociale è estremamente ridotta.
La democrazia, se non è riuscita a sconfiggere le oligarchie, tanto meno ha
potuto occupare tutti gli spazi in cui si prendono decisioni per un intero
gruppo sociale. A questo punto la distinzione che interessa non è solo quella
tra potere di molti e potere di pochi, ma quella tra potere discendente e
ascendente. La situazione attuale è un tradimento degli ideali democratici che
sono nati per legittimare e controllare le decisioni politiche in senso
stretto, dove il singolo viene considerato come cittadino e non nella
molteplicità dei suoi ruoli all’interno della società. Se dopo la conquista del
suffragio universale è ancora possibile un avanzamento della democratizzazione
questo deve avvenire con il passaggio alla democrazia diretta e nella
conseguente trasformazione della democrazia politica in democrazia sociale.
Sino a quando infatti i due grandi blocchi di potere dall’altro esistenti nella
società avanzata, l’impresa e l’apparato amministrativo, non subiscono un
processo di democratizzazione, il processo di democratizzazione non potrà dirsi
compiuto.
TRA DEMOCRAZIA DIRETTA ED E-DEMOCRACY (esperimenti europei, Porto Alegre, Jun, il Progetto per Roma)
LA QUESTIONE DELL’INFORMAZIONE (alfabetizzazione telematica, accesso all’informazione, la costituzionalizzazione del Quarto Potere)
ORGANIZZARE UN MOVIMENTO DIRETTISTA
I PASSAGGI INTERMEDI: NO AL VELLEITARISMO POPULISTA
RIFORMA O RIVOLUZIONE?
L’ORIZZONTE EUROPEO (2004, i lavori della convenzione)
CONCLUSIONI – IL TRAGUARDO (Verrà un giorno…)
APPENDICE – IL PIANO PER ROMA, UNA COSTITUZIONE DIRETTISTA
LA COSTITUZIONE FRANCESE DEL 1793
A1 4d.RTF
Décret du 21 septembre 1792
La Convention nationale déclare:
1° Qu'il ne peut y avoir de Constitution que celle qui est acceptée par le
peuple; 2° Que les personnes et les propriétés sont sous la sauvegarde de la
Nation.
Décret des 21-22 septembre 1792
La Convention nationale décrète à
l'unanimité que la royauté est abolie en France.
Déclaration du 25 septembre 1792
La Convention nationale déclare
que la République française est une et indivisible.
Constitution du 24 juin 1793
DÉCLARATION DES DROITS DE L'HOMME ET DU CITOYEN
Le peuple français, convaincu que
l'oubli et le mépris des droits naturels de l'homme, sont les seules causes des
malheurs du monde, à résolu d'exposer dans une déclaration solennelle, ces
droits sacrés et inaliénables, afin que tous les citoyens pouvant comparer sans
cesse les actes du gouvernement avec le but de toute institution sociale, ne se
laissent jamais opprimer, avilir par la tyrannie; afin que le peuple ait
toujours devant les yeux les bases de sa liberté et de son bonheur; le
magistrat la règle de ses devoirs; le législateur l'objet de sa mission. – En
conséquence, il proclame, en présence de l'Etre suprême, la déclaration
suivante des droits de l'homme et du citoyen.
Article premier. – Le but de la
société est le bonheur commun. – Le gouvernement est institué pour garantir à
l'homme la jouissance de ses droits naturels et imprescriptibles.
ART. 2. – Ces droits sont
l'égalité, la liberté, la sûreté, la propriété.
ART. 3. – Tous les hommes sont
égaux par la nature et devant la loi.
ART. 4. – La loi est l’expression
libre et solennelle de la volonté générale; elle est la même pour tous, soit
qu'elle protège, soit qu'elle punisse; elle ne peut ordonner que ce qui est
juste et utile à la société; elle ne peut défendre que ce qui lui est nuisible.
ART. 5. – Tous les citoyens sont
également admissibles aux emplois publics. Les peuples libres ne connaissent
d'autres motifs de préférence, dans leurs élections, que les vertus et les
talents.
ART. 6. – La liberté est le
pouvoir qui appartient à l'homme de faire tout ce qui ne nuit pas aux droits
d'autrui: elle à pour principe la nature; pour règle la justice; pour
sauvegarde la loi; sa limite morale est dans cette maxime: Ne fais pas à un
autre ce que tu ne veux pas qu'il te soit fait.
ART. 7. – Le droit de manifester
sa pensée et ses opinions, soit par la voie de la presse, soit de toute autre
manière, le droit de s'assembler paisiblement, le libre exercice des cultes, ne
peuvent être interdits. – La nécessité d'énoncer ces droits suppose ou la
présence ou le souvenir récent du despotisme.
ART. 8. – La sûreté consiste dans
la protection accordée par la société à chacun de ses membres pour la
conservation de sa personne, de ses droits et de ses propriétés.
ART. 9. – La loi doit protéger la
liberté publique et individuelle contre l'oppression de ceux qui gouvernent.
ART. 10. – Nul ne doit être
accusé, arrêté ni détenu, que dans les cas déterminés par la loi et selon les
formes qu'elle à prescrites. Tout citoyen, appelé ou saisi par l'autorité de la
loi, doit obéir à l'instant; il se rend coupable par la résistance.
ART. 11. – Tout acte exercé
contre un homme hors des cas et sans les formes que la loi détermine, est
arbitraire et tyrannique; celui contre lequel on voudrait l'exécuter par la
violence à le droit de le repousser par la force.
ART. 12. – Ceux qui
solliciteraient, expédieraient, signeraient, exécuteraient ou feraient exécuter
des actes arbitraires, sont coupables, et doivent être punis.
ART. 13. – Tout homme étant
présumé innocent jusqu'à ce qu'il ait été déclaré coupable, s'il est jugé
indispensable de l'arrêter, toute rigueur qui ne serait pas nécessaire pour
s'assurer de sa personne doit être sévèrement réprimée par la loi.
ART. 14. – Nul ne doit être jugé
et puni qu'après avoir été entendu ou légalement appelé, et qu'en vertu d'une
loi promulguée antérieurement au délit. La loi qui punirait les délits commis
avant qu'elle existât serait une tyrannie; l'effet rétroactif donné à la loi
serait un crime.
ART. 15. – La loi ne doit
décerner que des peines strictement et évidemment nécessaires: les peines
doivent être proportionnées au délit et utiles à la société.
ART. 16. – Le droit de propriété
est celui qui appartient à tout citoyen de jouir et de disposer à son gré de
ses biens, de ses revenus, du fruit de son travail et de son industrie.
ART. 17. – Nul genre de travail,
de culture, de commerce, ne peut être interdit à l'industrie des citoyens.
ART. 18. – Tout homme peut
engager ses services, son temps; mais il ne peut se vendre, ni être vendu; sa
personne n'est pas une propriété aliénable. La loi ne reconnaît point de
domesticité; il ne peut exister qu'un engagement de soins et de reconnaissance,
entre l'homme qui travaille et celui qui l'emploie.
ART. 19. – Nul ne peut être privé
de la moindre portion de sa propriété sans son consentement, si ce n'est
lorsque la nécessité publique légalement constatée l'exige, et sous la
condition d'une juste et préalable indemnité.
ART. 20. – Nulle contribution ne
peut être établie que pour l'utilité générale. Tous les citoyens ont le droit
de concourir à l'établissement des contributions, d'en surveiller l'emploi, et
de s'en faire rendre compte.
ART. 21. – Les secours publics
sont une dette sacrée. La société doit la subsistance aux citoyens malheureux,
soit en leur procurant du travail, soit en assurant les moyens d'exister à ceux
qui sont hors d'état de travailler.
ART. 22. – L'instruction est le
besoin de tous. La société doit favoriser de tout son pouvoir les progrès de la
raison publique, et mettre l'instruction à la portée de tous les citoyens.
ART. 23. – La garantie sociale
consiste dans l'action de tous, pour assurer à chacun la jouissance et la conservation
de ses droits; cette garantie repose sur la souveraineté nationale.
ART. 24. – Elle ne peut exister,
si les limites des fonctions publiques ne sont pas clairement déterminées par
la loi, et si la responsabilité de tous les fonctionnaires n'est pas assurée.
ART. 25. – La souveraineté réside
dans le peuple; elle est une et indivisible, imprescriptible et inaliénable.
ART. 26. – Aucune portion du
peuple ne peut exercer la puissance du peuple entier; mais chaque section du
souverain assemblée doit jouir du droit d'exprimer sa volonté avec une entière
liberté.
ART. 27. – Que tout individu qui
usurperait la souveraineté soit à l'instant mis à mort par les hommes libres.
ART. 28. – Un peuple a
toujours le droit de revoir, de réformer et de changer sa Constitution. Une
génération ne peut assujettir à ses lois les générations futures.
ART. 29. – Chaque citoyen à un
droit égal de concourir à la formation de la loi et à la nomination de ses
mandataires ou de ses agents.
ART. 30. – Les fonctions
publiques sont essentiellement temporaires; elles ne peuvent être considérées
comme des distinctions ni comme des récompenses, mais comme des devoirs.
ART. 31. – Les délits des
mandataires du peuple et de ses agents ne doivent jamais être impunis. Nul n'a
le droit de se prétendre plus inviolable que les autres citoyens.
ART. 32. – Le droit de présenter
des pétitions aux dépositaires de l'autorité publique ne peut, en aucun cas,
être interdit, suspendu ni limité.
ART. 33. – La résistance à
l'oppression est la conséquence des autres Droits de l'homme.
ART. 34. – Il y à oppression
contre le corps social lorsqu'un seul de ses membres est opprimé. Il y à
oppression contre chaque membre lorsque le corps social est opprimé.
ART. 35. – Quand le gouvernement
viole les droits du peuple, l'insurrection est, pour le peuple et pour chaque
portion du peuple, le plus sacré des droits et le plus indispensable des
devoirs.
acte constitutionnel
De la République
Article premier. – La République
française est une et indivisible.
De la distribution du peuple
ART. 2. – Le peuple français est
distribué, pour l'exercice de sa souveraineté, en Assemblées primaires de
canton.
ART. 3. – Il est distribué, pour
l'administration et pour la justice, en départements, districts, municipalités.
De l'état des citoyens
ART. 4. – Tout homme né et
domicilié en France, âgé de vingt et un ans accomplis; – Tout étranger âgé de
vingt et un ans accomplis, qui, domicilié en France depuis une année – Y vit de
son travail – Ou acquiert une propriété – Ou épouse une Française – Ou adopte
un enfant.– Ou nourrit un vieillard; – Tout étranger enfin, qui sera jugé par
le Corps législatif avoir bien mérité de l’humanité – Est admis à l'exercice
des Droits de citoyen français.
ART. 5. – L'exercice des Droits
de citoyen se perd – Par la naturalisation en pays étranger; – Par
l’acceptation de fonctions ou faveurs émanées d'un gouvernement non populaire;
– Par la condamnation à des peines infamantes ou afflictives, jusqu'à
réhabilitation.
ART. 6. – L'exercice des Droits
de citoyen est suspendu – Par l'état d'accusation; – Par un jugement de
contumace, tant que le jugement n'est pas anéanti.
De la souveraineté du peuple
ART. 7. – Le peuple souverain est
l'universalité des citoyens français.
ART. 8. – Il nomme immédiatement
ses députés.
ART. 9. – Il délègue à des
électeurs le choix des administrateurs, des arbitres publics, des juges
criminels et de cassation.
ART. 10. – Il délibère sur les
lois.
Des Assemblées primaires
ART. 11. – Les Assemblées
primaires se composent des citoyens domiciliés depuis six mois dans chaque
canton.
ART. 12. – Elles sont composées
de deux cents citoyens au moins, de six cents au plus, appelés à voter.
ART. 13. – Elles sont constituées
par la nomination d'un président, de secrétaires, de scrutateurs.
ART. 14. – Leur police leur
appartient.
ART. 15. – Nul n'y peut paraître
en armes.
ART. 16. – Les élections se font
au scrutin, ou à haute voix, au choix de chaque votant. –
ART. 17. – Une Assemblée primaire
ne peut, en aucun cas, prescrire un mode uniforme de voter.
ART. 18. – Les scrutateurs
constatent le vote des citoyens qui, ne sachant pas écrire, préfèrent de voter
au scrutin.
ART. 19. – Les suffrages sur les
lois sont donnés par oui et par non.
ART. 20. – Le vœu de l'Assemblée
primaire est proclamé ainsi: Les citoyens réunis en Assemblée primaire de...
au nombre de... votants, votent pour ou votent contre, à la majorité
de...
De la représentation nationale
ART. 21. – La population est la
seule base de la représentation nationale.
ART. 22. – Il y à un député en
raison de quarante mille individus.
ART. 23. – Chaque réunion
d'Assemblées primaires, résultant d'une population de 39000 à 41000 âmes, nomme
immédiatement un député.
ART. 24. – La nomination se fait
à la majorité absolue des suffrages.
ART. 25. – Chaque Assemblée fait
le dépouillement des suffrages, et envoie un commissaire pour le recensement
général au lieu désigné comme le plus central.
ART. 26. – Si le premier
recensement ne donne point de majorité absolue, il est procédé à un second
appel, et on vote entre les deux citoyens qui ont réuni le plus de voix.
ART. 27. – En cas d'égalité de
voix, le plus âgé à la préférence, soit pour être ballotté, soit pour être élu.
En cas d'égalité d'âge, le sort décide.
ART. 28. – Tout Français exerçant
les droits de citoyen est éligible dans l'étendue de la République. ART. 29. –
Chaque député appartient à la nation entière.
ART. 30. – En cas de
non-acceptation, démission, déchéance ou mort d'un député, i1 est pourvu à son
remplacement par les Assemblées primaires qui l'ont nommé.
ART. 31. – Un député qui à donné
sa démission ne peut quitter son poste qu'après l'admission de son successeur.
ART. 32. – Le peuple français
s'assemble tous les ans, le x"' mai, pour les élections.
ART. 33. – Il y procède quel que
soit le nombre de citoyens ayant droit d'y voter.
ART. 34. – Les Assemblées
primaires se forment extraordinairement, sur la demande du cinquième des
citoyens qui ont droit d'y voter.
ART. 35. – La convocation se
fait, en ce cas, par la municipalité du lieu ordinaire du rassemblement. ART.
36. – Ces Assemblées extraordinaires ne délibèrent qu'autant que la moitié,
plus un, des citoyens qui ont droit d'y voter, sont présents.
Des Assemblées électorales
ART. 37. Les citoyens réunis en
Assemblées primaires nomment un électeur à raison de 200 citoyens, présents ou
non; deux depuis 301 jusqu'à 400; trois depuis 500 jusqu'à 600.
ART. 38. – La tenue des
Assemblées électorales, et le mode des élections sont les mêmes que dans les Assemblées
primaires.
Du Corps législatif
ART. 39. – Le Corps législatif
est un, indivisible et permanent.
ART. 40. – Sa session est d'un
an.
ART. 41. – Il se réunit le Ier
juillet.
ART. 42. – L'Assemblée nationale
ne peut se constituer si elle n'est composée au moins de la moitié des députés,
plus un.
ART. 43. – Les députés ne peuvent
être recherchés, accusés ni jugés en aucun temps, pour les opinions qu'ils ont
énoncées dans le sein du Corps législatif.
ART. 44. – Ils peuvent, pour fait
criminel, être saisis en flagrant délit: mais le mandat d'arrêt ni le mandat
d'amener ne peuvent être décernés contre eux qu'avec l'autorisation du Corps
législatif.
Tenue des séances du Corps législatif
ART. 45. – Les séances de
l'Assemblée nationale sont publiques.
ART. 46. – Les procès-verbaux de
ses séances seront imprimés.
ART. 47. – Elle ne peut délibérer
si elle n'est composée de deux cents membres au moins.
ART. 48. – Elle ne peut refuser
la parole à ses membres, dans l'ordre où' ils l'ont réclamée.
ART. 49. – Elle délibère à la
majorité des présents.
ART. 50. – Cinquante membres ont
le droit d'exiger l'appel nominal.
ART. 51. – Elle à le droit de
censure sur la conduite de ses membres dans son sein.
ART. 52. – La police lui
appartient dans le lieu de ses séances, et dans l'enceinte extérieure qu'elle à
déterminée.
Des fonctions du Corps législatif
ART. 53. – Le Corps législatif
propose des lois et rend des décrets.
ART. 54. – Sont compris, sous le
nom général de loi, les actes du Corps législatif, concernant: – La législation
civile et criminelle; – L'administration générale des revenus et des dépenses
ordinaires de la République; – Les domaines nationaux; – Le titre, le poids,
l'empreinte et la dénomination des monnaies; – La nature, le montant et la perception
des contributions; – La déclaration de guerre; – Toute nouvelle distribution
générale du territoire français; – L'instruction publique; – Les honneurs
publics à la mémoire des grands hommes.
ART. 55. – Sont désignés, sous le
nom particulier de décret, les actes du Corps législatif, concernant: –
L'établissement annuel des forces de terre et de mer; – La permission ou la
défense du passage des troupes étrangères sur le territoire français; –
L'introduction des forces navales étrangères dans les ports de la République; –
Les mesures de sûreté et de tranquillité générales; – La distribution annuelle
et momentanée des secours et travaux publics; – Les ordres pour la fabrication
des monnaies de toute espèce; – Les dépenses imprévues et extraordinaires; –
Les mesures locales et particulières à une administration, une commune, à un
genre de travaux publics; – La défense du territoire; – La ratification des
traités; – La nomination et la destitution des commandants en chef des armées;
– La poursuite et la responsabilité des membres du conseil, des fonctionnaires
publics; – L'accusation des prévenus de complots contre la sûreté générale de
la République; – Tout changement dans la distribution partielle du territoire
français; – Les récompenses nationales.
De la formation de la loi
ART. 56. – Les projets de loi
sont précédés d'un rapport.
ART. 57. – La discussion ne peut
s'ouvrir, et la loi ne peut être provisoirement arrêtée que quinze jours après
le rapport.
Art. 59. – Le projet est imprimé
et envoyé à toutes les communes de la République, sous ce titre: loi proposée.
ART. 60. – Quarante jours après
l'envoi de la loi proposée, si, dans la moitié des départements, plus un, le
dixième des Assemblées primaires de chacun d'eux, régulièrement formées, n'a
pas réclamé, le projet est accepté et devient loi.
ART. 61. – S'il y à réclamation,
le Corps législatif convoque les Assemblées primaires.
De l'intitulé des lois et des décrets
ART. 62. – Les lois, les décrets,
les jugements et tous les actes publics sont intitulés: Au nom du peuple
français, l'an... de la République française. Du Conseil exécutif
ART. 62. – Il y à un Conseil
exécutif composé de vingt-quatre membres.
ART. 63. – L'Assemblée électorale
de chaque département nomme un candidat. Le Corps législatif choisit, sur la
liste générale, les membres du Conseil.
ART. 64. – Il est renouvelé par
moitié à chaque législature, dans les derniers mois de sa session.
ART. 65. – Le Conseil est chargé
de la direction et de la surveillance de l'administration générale; il ne peut
agir qu'en exécution des lois et des décrets du Corps législatif.
ART. 66. – Il nomme, nors de son
sein, les agents en chef de l'administration générale de la République.
ART. 67. – Le Corps législatif
détermine le nombre et les fonctions de ces agents.
ART. 68. – Ces agents ne forment
point un conseil; ils sont séparés, sans rapports immédiats entre eux; ils
n'exercent aucune autorité personnelle.
ART. 69. – Le Conseil nomme, hors
de son sein, les agents extérieurs de la République.
ART. 70. – Il négocie les
traités.
ART. 71. – Les membres du
Conseil, en cas de prévarication, sont accusés par le Corps législatif.
ART. 72. – Le Conseil est
responsable de l'inexécution des lois et des décrets, et des abus qu'il ne
dénonce pas.
ART. 73. – Il révoque et remplace
les agents à sa nomination.
ART. 74. – Il est tenu de les
dénoncer, s'il y à lieu, devant les autorités judiciaires.
Des relations du Conseil exécutif avec le Corps législatif
ART. 75. – Le Conseil exécutif
réside auprès du Corps législatif; il à l'entrée et une place séparée dans le
lieu de ses séances.
ART. 76. – Il est entendu toutes
les fois qu'il à un compte à rendre.
ART. 77. – Le Corps législatif
l'appelle dans son sein, en tout ou en partie lorsqu'il le juge convenable. Des
corps administratifs et municipaux
ART. 78. – Il y à dans chaque
commune de la République une administration municipale; – Dans chaque district,
une administration intermédiaire; – Dans chaque département, une administration
centrale.
ART. 79. – Les officiers
municipaux sont élus par les Assemblées de commune.
ART. 80. – Les administrateurs
sont nommés par les Assemblées électorales de département et de district.
ART. 81. – Les municipalités et
les administrations sont renouvelées tous les ans par moitié.
ART. 82. – Les administrateurs et
officiers municipaux n'ont aucun caractère de représentation. – Ils ne peuvent,
en aucun cas, modifier les actes du Corps législatif, ni en suspendre
l'exécution.
ART. 83. – Le Corps législatif
détermine les fonctions des officiers municipaux et des administrateurs, les
règles de leur subordination, et les peines qu'ils pourront encourir.
ART. 84. – Les séances de
municipalités et des administrations sont publiques.
De la Justice civile
ART. 85. – Le code des lois
civiles et criminelles est uniforme pour toute la République.
ART. 86. – Il ne peut être porté
aucune atteinte au droit qu'ont les citoyens de faire prononcer sur leurs
différends par des arbitres de leur choix.
ART. 87. – La décision de ces
arbitres est définitive, si les citoyens ne se sont pas réservé le droit de
réclamer.
ART. 88. – Il y à des juges de
paix élus par les citoyens des arrondissements déterminés par la loi.
ART. 89. – Ils concilient et
jugent sans frais.
ART. 90. – Leur nombre et leur
compétence sont réglés par le Corps législatif.
ART. 91. – Il y à des arbitres
publics élus par les Assemblées électorales.
ART. 92. – Leur nombre et leurs
arrondissements sont fixés par le Corps législatif.
ART. 93. – Ils connaissent des
contestations qui n'ont pas été terminées définitivement par les arbitres
privés ou par les juges de paix.
ART. 94. – Ils délibèrent en
public. – Ils opinent à haute voix. – Ils statuent en dernier ressort, sur
défenses verbales, ou sur simple mémoire, sans procédures et sans frais. – Ils
motivent leurs décisions. ART. 95. – Les juges de paix et les arbitres publics
sont élus tous les ans.
De la Justice criminelle
ART. 96. – En matière criminelle,
nul citoyen ne peut être jugé que sur une accusation reçue par les jurés ou
décrétée par le Corps législatif. – Les accusés ont des conseils choisis par
eux, ou nommés d'office. – L'instruction est publique. – Le fait et l'intention
sont déclarés par un juré de jugement. – La peine est appliquée par un tribunal
criminel.
ART. 97. – Les juges criminels
'sont élus tous les ans par les Assemblées électorales.
Du Tribunal de cassation
ART. 98. – Il y à pour toute la
République un Tribunal de cassation.
ART. 99. – Ce tribunal ne connaît
point du fond des affaires. – Il prononce sur la violation des formes et sur
les contraventions expresses à la loi.
ART. 100. – Les membres de ce
tribunal sont nommés tous les ans par les Assemblées électorales.
Des Contributions publiques
ART. 101. – Nul citoyen n'est
dispensé de l'honorable obligation de contribuer aux charges publiques. De la
Trésorerie nationale
ART. 102. – La trésorerie
nationale est le point central des recettes et dépenses de la République.
ART. 103. – Elle est administrée
par des agents comptables, nommés par le Conseil exécutif.
ART. 104. – Ces agents sont
surveillés par des commissaires nommés par le Corps législatif, pris hors de
son sein, et responsables des abus qu'ils ne dénoncent pas.
De la Comptabilité
ART. 105. – Les comptes des
agents de la trésorerie nationale et des administrateurs des deniers publics,
sont rendus annuellement à des commissaires responsables, nommés par le Conseil
exécutif.
ART. 106. – Ces vérificateurs
sont surveillés par des commissaires à la nomination du Corps législatif, pris
hors de son sein, et responsables des abus et des erreurs qu'ils ne dénoncent
pas. – Le Corps législatif arrête les comptes.
Des Forces de la République
ART. 107. – La force générale de
la République est composée du peuple entier.
ART. 108. – La République entretient
à sa solde, même en temps de paix, une force armée de terre et de mer.
ART. 109. – Tous les Français
sont soldats; ils sont tous exercés au maniement des armes.
ART. 110. – Il n'y à point de
généralissime.
ART. 111. – La différence des
grades, leurs marques distinctives et la subordination ne subsistent que
relativement au service et pendant sa durée.
ART. 112. – La force publique
employée pour maintenir l'ordre et la paix dans l'intérieur, n'agit que sur la
réquisition par écrit des autorités constituées.
ART. 113. – La force publique
employée contre les ennemis du dehors, agit sous les ordres du Conseil
exécutif.
ART. 114. – Nul corps armé ne
peut délibérer.
Des Conventions nationales
ART. 115. – Si dans la moitié des
départements, plus un, le dixième des Assemblées primaires de chacun d'eux,
régulièrement formées, demande la révision de l'acte constitutionnel, ou le
changement de quelques-uns de ces articles, le Corps législatif est tenu de
convoquer toutes' les Assemblées primaires de la République, pour savoir s'il y
à lieu à une Convention nationale.
ART. 116. – La Convention
nationale est formée de la même manière que les législatures, et en réunit les
pouvoirs.
ART. 117. – Elle ne s'occupe,
relativement à la Constitution, que des objets qui ont motivé sa convocation.
Des rapports de la République française avec les nations étrangères
ART. 118. – Le Peuple français
est l'ami et l'allié naturel des peuples libres.
ART. 119. – Il ne s'immisce point
dans le gouvernement des autres nations; il ne souffre pas que les autres
nations s'immiscent dans le sien.
ART. 120. – Il donne asile aux
étrangers bannis de leur patrie pour la cause de la liberté. – Il le refuse aux
tyrans.
ART. 121. – Il ne fait point la
paix avec un ennemi qui occupe son territoire.
De la Garantie des Droits
ART. 122. – La Constitution
garantit à tous les Français l'égalité, la liberté, la sûreté, la propriété, la
dette publique, le libre exercice des cultes, une instruction commune, des
secours publics, la liberté indéfinie de la presse, le droit de pétition, le
droit de se réunir en sociétés populaires, la jouissance de tous les Droits de
l'homme.
ART. 123. – La République
française honore la loyauté, le courage, la vieillesse, la piété filiale, le
malheur. Elle remet le dépôt de sa Constitution sous la garde de toutes les
vertus.
ART. 124. – La déclaration des
Droits et l'acte constitutionnel sont gravés sur des tables au sein du Corps
législatif et dans les places publiques.
[1] I cinque ragazzi in questione, per la cronaca e per la storia, sono: Mario Adinolfi, Arturo Celletti, Giovanni Col avita, Marco D’Elia ed Eugenio Fatigante. L’incontro è avvenuto presso lo studio notarile in piazza del Fante 10 a Roma.
[2] Le elezioni politiche e amministrative erano già state fissate per il 13 maggio 2001, a meno di due mesi dunque dalla nascita di Democrazia Diretta.
[3] Tra i più rilevanti Mehr Demokratie in Germania,
[4] Il mensile in questione è Mediajob, che pubblicò articoli e pagine pubblicitarie a sostegno di Democrazia Diretta nei numeri che vanno da marzo a giugno 2001.
[5] La prima sede di Democrazia Diretta a Roma fu stabilita in corso Vittorio Emanuele II 154. Successivamente traslocò in via Monterone 82, sempre nel centro di Roma.
[6] Il candidato sindaco di Democrazia Diretta ottenne 1.587 preferenze, la lista collegata 1.543 voti, le liste municipali sommate superarono i 4.000 voti (dati ufficiali del Comune di Roma).
[7] L’11 settembre 2001 il volo…
[8] George W. Bush è stato eletto presidente degli Stati Uniti nel 2000 dopo il padre, George Bush, che ha occupato la stessa carica fino al 1992. Decisiva, nel contestato conteggio dei voti che ha assegnato la vittoria a George W. Bush contro il rivale Al Gore, è stata la Florida governata dal fratello Jeb Bush.